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“È stata la mano di Dio”: guida pratica per la creazione di un instant cult

La realtà non mi piace più. La realtà è scadente

È questa la frase che riecheggia insistentemente tra le armonie delle scene che costellano l’ultima fatica di Paolo Sorrentino, “È stata la mano di Dio”. L’opera sicuramente più introspettiva e dichiaratamente autobiografica che il regista partenopeo ha diretto finora nel corso della sua carriera.

Il film è stato presentato per la prima volta ad un pubblico durante l’ultima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, dove ha ottenuto il Gran premio della giuria e il premio Marcello Mastroianni al protagonista Filippo Scotti, qui alla sua prima apparizione cinematografica. 

La pellicola però, data la rilevanza che sta ottenendo anche all’estero, sembra sia in procinto di intraprendere la stessa strada dorata che ha percorso “La grande bellezza”, film-consacratore di Sorrentino, affiancato dall’iconico Toni Servillo nei panni di Jep Gambardella. Di recente, infatti, è stata rilasciata la notizia dell’entrata in gara del film nella categoria di miglior film straniero ai prossimi Golden Globe 2022. 

Il confronto tra i due film diventa quindi inevitabile sia per ragioni produttive che di intenti. Se “La grande bellezza”, infatti, rappresentava un simulacro della decadenza mondana, che assumeva i contorni del dramma universale, problema, oltretutto, affrontato con distacco e cinismo, “È stata la mano di Dio” invece ne è l’esatto opposto, prediligendo un occhio più attento agli equilibri sottesi del microverso di una famiglia meridionale e tutte quelle parole che più che pronunciate vengono sussurrate lontano da occhi indiscreti e pregiudizievoli. Un film più intimo, ma non per questo meno ambizioso. Non è una casualità, appunto, la scelta di distribuzione ricaduta su di un colosso dello streaming, volta a massimizzare la diffusione della pellicola e a renderla repentinamente un instant-cult, così come inneggiavano alcune testate giornalistiche ancor prima del rilascio nelle sale.

Ma cos’è che rende “È stata la mano di Dio” un instant-cult e un ottimo esempio di film di formazione?

Forse il ritmo vivace della narrazione o magari la fedeltà e il realismo evidenziate nella riproduzione dei rapporti umani che si respirano in tutte quelle famiglie che nei periodi più caldi si rifugiano tra le risate e le contraddizioni degli infiniti pranzi estivi, alcuni invece avranno anche notato la precisione chirurgica con cui sono stati inseriti alcuni elementi onirici che si intrecciano perfettamente con l’evoluzione della trama e strizzano l’occhio al citazionismo Felliniano, tipico della filmografia di Sorrentino. Ma ciò che in realtà resta realmente impresso nella memoria di chi assiste allo scorrere dell’adolescenza del protagonista è la consapevolezza inconscia che questo sia uno di quei film in grado di parlare allo spettatore, immergerlo nell’altalenante flusso di dolore e gioia che la vita ci ha abituati ad affrontare e portarlo ad uno stato di maggiore consapevolezza su cosa significhi essere parte di una realtà in continuo divenire. 

La regia ci guida così tra i vicoli di Napoli, vibranti di speranze e in trepidante attesa di una notizia che da lì a poco sconvolgerà l’intera città: l’arrivo di Diego Armando Maradona al Napoli. È infatti proprio durante la prima metà degli anni 80’ che la narrazione prende piede, un periodo segnato anche dalla sfuggente presenza nel capoluogo italiano di Federico Fellini, in procinto di iniziare le riprese del suo “E la nave va”. Due grandi icone che di fatto rappresentano i capi saldi dell’immaginario da cui Sorrentino attinge nella maggior parte delle sue opere, dal cardinale Voiello, sfegatato tifoso del Napoli, in “The Young Pope” fino al cameo “vocale” dello stesso regista romagnolo nel film che adesso è nelle sale. Da una parte un chiaro segno di appartenenza dal suo luogo di provenienza, tradotto nel mito di quella leggendaria stagione calcistica, dall’altra una figura che fin da subito fungerà d’ispirazione e da maestro spirituale per la carriera che poi Sorrentino intraprenderà. 

Per tali ragioni, “È stata la mano di Dio” parte dalle radici. Raccontando dell’adolescenza tumultuosa e malinconica di Fabietto Schisa, un ragazzo introverso il cui migliore amico è nientemeno che suo padre, interpretato da Toni Servillo, un uomo dedito alla moglie ma non esente dal possedere qualche scheletro nell’armadio come poi verrà mostrato nel modo durante una delle scene più potenti della pellicola, nonché fra quelle più cariche di pathos. Al seguito dei quali si affiancano Teresa Saponagelo, Marlon Joubert e Luisa Ranieri, nei panni rispettivamente della madre, del fratello e della instabile zia di Fabietto. Tutte figure che avranno un impatto inevitabilmente indelebile sulla vita del nostro protagonista, il quale si trova spesso sballottato tra le vicende, a tratti grottesche, che questi personaggi metteranno in scena, oscillando tra la profonda tenerezza ed una genuina difficoltà nella gestione dei loro sentimenti, per giungere infine ad una tragedia incolmabile. In questo esatto punto, per la precisione, avviene la reale crescita di Fabietto, alle prese con un dolore che non conosce tregua ne rimedio. Un dolore che, come spesso accade nella vita, porta ad una riflessione radicale sulle proprie convinzioni e su ciò che aspiriamo a ricercare nella realtà che ci circonda. 

Sarà solo dopo questi istanti che, sedimentando le emozioni da lui provate, il giovane Schisa riuscirà a dare un senso alle parole che suo fratello gli riporta, a seguito di un provino andato male per il film di Fellini in fase di preparazione: “La realtà non mi piace più. La realtà è scadente”. Tutte le certezze e i capisaldi che avrebbero dovuto mostrargli la strada più giusta da intraprendere adesso sono solo un lontano ricordo. Le timide amicizie che Fabietto possiede non sono più abbastanza per rimettere insieme i pezzi. L’unica cosa che suscita un bagliore di speranza nel buio che lo attanaglia è il cinema, il quale lo “investe” quasi per caso e lentamente inizia ad invadere i suoi sogni di rinascita, portandolo alla conclusione che la soluzione è fuggire da Napoli, da quei ricordi, da quei luoghi che lo hanno accompagnato per tutta la sua esistenza, una realtà ormai “scadente”, priva di qualsiasi stimolo creativo. Un personaggio chiave, però, funge da chiavistello definitivo per la presa di coscienza che Fabietto tanto va agognando: Antonio Capuano, regista teatrale e cinematografico napoletano. Questi, avvicinato dal protagonista, intraprende con lui un dialogo dal ritmo serrato e sentenzioso nel corso di una delle scene-madri del film, in cui finalmente il ragazzo ammette le ragioni recondite della sua propensione a partire da Napoli per tentare di fare cinema e viene cripticamente ammonito dall’artista napoletano con una frase che Fabietto non possiede ancora la maturità di comprendere: “Non ti disunire”. Un concetto che Paolo Sorrentino ha da sempre suggerito nei suoi racconti e che ora palesa in tutta la sua sfera dei significati.

“È stata la mano di Dio” è il film che mette a nudo lo stesso regista che è riuscito a rendere pop un papa politicamente scorretto e un eroinomane un esempio di eroismo (“Le conseguenze dell’amore”). Un regista che ha lasciato un solco profondo nell’immaginario del cinema italiano degli ultimi vent’anni e che adesso si lascia scrutare dello spettatore attraverso una storia che riflette tutti gli aspetti della sua vita personale che ne hanno formato il carattere. È un invito a sorridere, a rivivere i ricordi sbiaditi della propria giovinezza e ad osservare quello strato della vita che rimane celato fin quando non decidiamo di posare lo sguardo su di esso e sentirci così finalmente noi stessi.

-Claudio Grillo -