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Le sorelle Macaluso: frutto marcio di una società captiva o quando il cinema può redimere la cruda realtà

“La cattiveria fa parte della storia della nostra vita. Gli esseri umani sono tendenzialmente cattivi, ma non necessariamente assassini. La cattiveria è un sentimento che, secondo me, appartiene anche all'infanzia. C'è nella sorellanza e nella fratellanza, nelle famiglie. In famiglia si diventa anche cattivi: ci sono dei momenti in cui uccideresti il tuo congiunto. Poi ti fermi prima, ma fa parte di questo gioco un po' al massacro che è la famiglia.”

Queste le parole di Emma Dante, a proposito del suo ultimo film Le sorelle Macaluso, in un’intervista rilasciata durante la 77ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia (2020), nel cui ambito la pellicola ha ottenuto due riconoscimenti importanti: il Premio Pasinetti per il miglior film e il Premio Pasinetti per la migliore interpretazione femminile all’intero cast. 

Le sorelle Macaluso vede, dunque, un cast di sole donne: 5 sorelle, che nella versione teatrale scritta e diretta dalla stessa Dante erano 7, descritte in tre diversi momenti di vita. Se si volesse fare un paragone con lo spettacolo teatrale del 2014, si potrebbe, infatti, dire che il cinema, che per sua stessa natura si nutre del tempo e, con esso, può giocare, aggiunge (senza con ciò voler sminuire il teatro, che ha un linguaggio, si capisce, ovviamente diverso da quello cinematografico e non comparabile con quest’ultimo) elementi e dettagli nuovi, inediti, facendo così de Le sorelle Macaluso un prodotto diverso, non nella sua essenza ma nella forma e anche nei contenuti, dalla rappresentazione teatrale omonima. Non mi inoltro ancora, però, in questo arduo terreno, del paragone fra arti; tuttavia meriterebbe attenzione anche lo spettacolo teatrale, facilmente reperibile su RaiPlay nella versione andata in scena al Piccolo Teatro di Milano, se non altro per conoscere la regia viscerale di una donna il cui genio si è espresso e continua ad esprimersi, in primis, a teatro e il cui spettacolo in questione ne rappresenta un riconoscimento, visto il doppio trionfo ai Premi Ubu (i più importanti a livello nazionale in ambito teatrale) per il miglior spettacolo e la miglior regia. 

Se a teatro emerge la fisicità e la presenza dei corpi, complice anche la scenografia scarna della rappresentazione, al cinema questa stessa viva corporeità viene ribadita con forza. Ne è esempio uno dei protagonisti, se non addirittura il protagonista, della storia: la casa. 

“La casa è un corpo. È un corpo che cambia, non è mai la stessa, come cambiano le sorelle. Cambia look, cambia vestito, cambia umore a seconda degli anni, siamo in tre fasi diverse della vita. Invecchia anche lei insieme alle sorelle, per cui diventa un personaggio vero e proprio.”

Se la Dante ha deciso di avere così tanta cura per l’allestimento degli interni della casa (tanto che, secondo quanto riportato da Donatella Finocchiaro, interprete di “Pinuccia”, il cast ha passato ben due settimane a prendere dimestichezza con gli spazi del set per imparare da subito come muovercisi al suo interno) un motivo deve esserci. Il film, infatti, è spesso connotato di un certo valore simbolico, basti pensare ai colombi come simbolo di libertà, leggerezza, ma che tornano sempre al proprio nido, alla scena del piatto frantumato che precede quella del litigio familiare, alla conseguente volontà di Maria, la sorella maggiore, di riparare lo stesso piatto, come ultimo disperato tentativo di unione. E così anche la casa, con la sua esuberante presenza, ha un ruolo all’interno dell’universo simbolico del film, assumendo le fattezze di una prigione, in cui tutto marcisce e si incattivisce. Eccola la già citata cattiveria familiare: la famiglia, la casa, è una prigione, le persone che ne fanno parte, i cattivi, ne sono i prigionieri, i captivi. Allora Pinuccia non riesce più a condividere quelle mura con la sorella Lia che, dal canto suo, rimane fuori di casa attendendo la fine del rapporto sessuale tra Pinuccia e il suo ragazzo. La cattiveria, intesa come cattività, è uno dei punti salienti, se non addirittura il punto cardine del film, che si apre con un’inquadratura del muro di casa, su cui le piccole sorelle sono intente a scavare un buco, dunque ad aprirsi una strada, una via di fuga, un piccolo spiraglio sul mondo e sul suo mistero, a cui i bambini, con timida curiosità, desiderano partecipare. La casa e, per traslato, la famiglia e ancora si potrebbe arrivare a dire la società, in special modo quella di una Sicilia ammorbata da paralisi e immobilismo, è quel giogo che soffoca ogni tentativo e spiraglio di libertà e affermazione personale. Le sorelle Macaluso soffocano sotto il peso delle mani della frustrazione, che sembra essere, per necessità, condizione di vita (o di non-vita?).

 Le sorelle Macaluso è un film di vite e aspirazioni stroncate sul nascere da una morte ben peggiore di quella fisica: la morte dell’infanzia. È nel contrasto col mondo esterno, poco accogliente, degradato (la scaletta arrugginita e appuntita del lido che più volte la Dante ci mostra), che l’uomo si scopre deluso, perché deluso è stato il suo vivo sentimento di scoperta, di curiosità, di bisogno di bellezza; allora sopraggiunge la frustrazione, che non fa altro che alimentare la cattiveria interpersonale.

In questa analisi apocalittica consegnataci dalla regista palermitana c’è, però, una cura espressiva raffinata che passa per inquadrature statiche della casa vuota (ma piena di oggetti), riprese dall’alto di corpi nudi (ci sono diverse inquadrature della vasca da bagno dove, da piccola, giocava Lia immergendocisi con una maschera, da grande si distende Maria, per trovare un attimo di quiete e, da anziane, Pinuccia e Katia mettono i fiori per il funerale), fuoricampo sonori e fisici (dell’amplesso di Pinuccia, del corpo emaciato di Maria che si guarda allo specchio), particolari e primi piani che evidenziano ora la freschezza della giovinezza, ora le rughe dell’età che avanza, scelte musicali che fanno da pendant alle scene (Inverno di Franco Battiato, Meravigliosa creatura di Gianna Nannini, Gymnopédie No.1 di Erik Satie – un carillon che culla lo spettatore) e riprese in movimento, quasi danzanti (una di queste è, praticamente, la soggettiva di una bara). È proprio in questa attenzione comunicativa nel descrivere la storia che emerge un significato altro, più universale, che redime la cruda realtà, una sensazione, più che un significato: il trascorrere del tempo. Non si tratta di un tempo tiranno, ma materno, che, con pacatezza, con dolcezza, accompagna l’uomo nel suo viaggio che è la vita. Ecco che, alla fine del film, e così della vita, scompare quella frustrazione dettata, forse, in ultima analisi, da velleità giovanili e appare un sentimento nuovo, proprio di quell’uomo che contempla ed ha cura della vita, che ama la propria prigione perché, in fin dei conti, non lo è, e ad essa rimane attaccato con forza e dignità sacra, come un bimbo che non vuole staccarsi dal seno materno. È il sentimento della durata.

Le sorelle Macaluso è una pellicola che vive di rimandi, anticipazioni, metafore più o meno visibili, giocando col non-visto, col non-detto o, all’estremo opposto, con l’eccesso dell’esplicito, in un’armonia perfetta tra lirica e prosa. Per questo motivo alla 66ª edizione dei David di Donatello il film è stato candidato per ben sei categorie e la Dante ha fatto valere la propria voce ancestrale, spesso fuori dal coro.

-Daniele Napoli-