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Licorice Pizza: l’instancabile maratona di Paul Thomas Anderson

Il ritorno di Paul Thomas Anderson dietro la macchina da presa ha tenuto con il fiato sospeso milioni di fan, sin da quando il suo precedente capolavoro, “Il filo nascosto”, ha reso ormai immortale il nome del regista con un film sicuramente lirico ma intriso di un tipo di amore che sconfina nei meandri più oscuri della mente. Adesso l’attesa è stata ripagata con un film che ricorda nelle atmosfere il suo “Boogie Nights” e nei toni “Ubriaco d’amore”, con cui condivide persino alcune scelte di fotografia. Ma andiamo per ordine.

“Licorice Pizza” è un film che inizia col “botto”, sia letterale che metaforico, con un piano sequenza che presenta allo spettatore il ritmo, i personaggi, e l’incipit di una storia d’amore costellata di ostacoli e spesso sottesa, ma mai dissipata tra le trame che coinvolgono i protagonisti. Per l’occasione Anderson affida al giovane Cooper Hoffman l’arduo compito di sostenere il peso della sua prima apparizione cinematografica nelle vesti di un personaggio cucito su misura sulla corporeità e il carisma che contraddistinguono la famiglia Hoffman. Cooper, infatti, non è nuovo alla grande industria del cinema… proprio per via della sua discendenza, essendo nientemeno che il figlio del premio Oscar Philip Seymoure Hoffman. Un attore, potremmo dire, titanico, che ha lavorato con Anderson per oltre 15 anni e che ha lasciato dietro di sé interpretazioni indimenticabili, fra le tante quella dell’istrionico Maestro in “The Master”, prima della sua prematura scomparsa nel 2014. Un passaggio del testimone, quindi, che avviene nella maniera più naturale possibile, considerando la maestria con cui Cooper dona credibilità e brio al suo Gary Valentine, uno dei due protagonisti, il quale cerca di farsi strada nei fiammanti anni 70, sulle note di una colonna sonora vibrante e avvolgente. 

Dall’altro lato della barricata, anche lei alla sua prima apparizione in un’opera filmica e con alle spalle una carriera da cantante, Alana Haim, che presta il volto ad un esuberante e pungente ragazza, di origine ebraica, dalla presenza scenica imponente e imprevedibile. Condividendo lo schermo con Gary, darà vita con lui al ritratto di una coppia facilmente etichettabile come disfunzionale ma dai risvolti, seppur esasperanti, carichi di pathos ed emozione. 

Paul Thomas Anderson regala allo spettatore una storia quasi episodica, frammentata e caotica per quanto riguarda la messa in scena degli eventi, cui però fa da filo conduttore il rapporto tra Gary, 15 anni, e Alana, 25. Una differenza di età forse inizialmente incolmabile, ma annullata dall’intraprendenza e dall’aria ambiziosa che Gary possiede e dalla necessità di cambiamento e di nuovi stimoli che Alana sembra dimostrare. Entrambi evolvono e crescono a modo loro, cercando di tirare fuori dal cilindro la trovata che permetterà ad entrambi di sbarcare il lunario, in modo da non rendere vacui i loro sforzi per affermare definitivamente se stessi. Guidati da scopi diversi e spesso in conflitto tra loro, la chimica che scorre tra i due attori attraversa gli alti e i bassi di una relazione prevalentemente adolescenziale e le parole che non vengono dette ad alta voce vengono frequentemente espresse con gesti plateali che ricordano i movimenti di un musical dell’età d'oro di Hollywood. 

È proprio la città di Los Angeles che ruota attorno alla narrazione, un vero e proprio ecosistema a sé stante popolato dai personaggi più eccentrici, interpretati per l’occasione in dei piccoli camei da star del calibro di Bradley Cooper, protagonista di 15 minuti permeati dal grottesco e destinati a diventare un cult per gli anni a venire, e un sempre più nostalgico Sean Penn, nei panni di un regista avventuroso e narcisista. Tra i meandri della città la trama corre spedita sui binari di una storia di formazione, che strizza l’occhio alla commedia romantica e ne riprende i migliori cliché, trasformandola in un racconto originale e immersivo, grazie soprattutto all’instancabile macchina da presa di Anderson, la quale insegue le pedine della storia come un membro stesso del ristretto gruppo di adolescenti amici di Gary e Valentine.

Solo in un modo la coppia riesce ad esprimere il loro desiderio di libertà in un mondo in ormai continua evoluzione, colpita dalla crisi del gas del 73’ e da un’epoca di proibizionismo sessuale: correndo. Magari per venire in aiuto l’uno dell’altro, altre volte per battere sul tempo lo schioccare inesorabile delle ore, segno tangibile di una giovinezza che va sempre di più appassendo, o persino per raggiungere finalmente le soglie della realizzazione personale, in una giostra che non accenna a fermarsi e che permette solo agli impavidi di impadronirsene. 

Così come ci ha insegnato il cinema di Paul Thomas Anderson, le storie sono fatte di persone, immortalate in taglienti primi piani e beffardamente inquadrati con una coraggiosa descrizione dei dettagli, una spietata sincerità e un pizzico di ironia. Persone assolutamente fallibili, ma che al presentarsi di una chance, non si tirano indietro, magari sono inizialmente riluttanti (chi non lo sarebbe davanti alla scelta tra un amore ancora acerbo e un altro destinato all’abbandono all’età adulta?), ma, nel loro tentativo di raggiungere lo status desiderato, esprimono una profondità d’animo dai risultati sorprendenti per lo spettatore.

Gary e Alana è questo che rappresentano, bombe ad orologeria per i loro interessi, disposti a tutto pur di liberarsi dalla facciata che il mondo che li circonda gli ha affibbiato. Il ragazzino trasformatosi in imprenditore improvvisato, con alle spalle una breve carriera da attore e con un bagaglio pieno di sogni, incapace però di abbandonare del tutto la sua propensione a comportarsi in modo immaturo di fronte agli ostacoli, specialmente se di natura emotiva, come del resto ci si aspetterebbe da un ragazzo della sua età e Alana Haim, che nel film recita al fianco della sua intera famiglia, i quali interpretano nient’altro che loro stessi (con le dovute differenze), sicura di sé e in lotta con la visione profondamente conservatrice del contesto famigliare da cui proviene, in cerca di un posto che la faccia sentire realmente adulta, nonostante durante i confronti con il suo spasimante si faccia fatica a discernere chi sia più orgoglioso tra i due. Bazzicando, tra l’altro, negli stessi luoghi in cui hanno camminato le stelle di un mondo che sembra paradossalmente irraggiungibile come quello di Hollywood, emerge quindi palese il riferimento ad una mentalità votata al sogno americano, ipocrita e surrealista. 

Come Adam Sandler in “Ubriaco d’amore” e il personaggio di William Macy in “Magnolia”, i protagonisti del film faticano ad esprimere a fondo ciò che provano proprio per gli stessi motivi per cui le provano: il timore di non essere abbastanza. Fingono, raccontano aneddoti sul loro “misterioso passato” e mostrano parti di loro perfettamente confezionate per essere presentate a chi gli si para davanti. 

Il titolo del film “Licorice Pizza” aiuta forse a delineare le intenzioni del regista, dal momento in cui si riferisce ad una catena di negozi di vinili molto in voga durante gli anni 70’ e ad un termine usato, per l’appunto, dagli estimatori del LP per indicare le cosiddette “pizze di liquirizia”, per via della loro forma schiacciata e scura. Tutti elementi che ricordano l’infanzia di Anderson, svoltasi per la maggior parte in California, e l’atmosfera in cui la pellicola riesce ad immergere lo spettatore. Uno spaccato di un America che è stata e che ormai vive solo nella memoria collettiva, dal gusto dolce amaro. In quel piccolo micro-verso però, Gary e Alana continueranno sempre a rincorrersi, consumando quella speranza che ci pervade tutte quelle volte che percepiamo la gravità meno pesante del solito o chissà magari anche ai piedi di un materasso ad acqua.

-Claudio Grillo-