Favolacce ovvero: quando l’infanzia è teatro di inquietudini immortali

Presentato per la prima volta al festival internazionale del cinema di Berlino il 25 febbraio dello scorso anno e proiettato solo in pochi cinema sul territorio nazionale, Favolacce fa parte di quel gruppo di film “figli della pandemia”, che hanno trovato nello streaming il loro mezzo di maggior diffusione.

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Diretto da Damiano e Fabio D’Innocenzo e girato a Spinaceto, la pellicola rappresenta un vero e proprio spartiacque per il cinema italiano che verrà e le ragioni di tale onere sono molteplici.

Ma come tutte le più grandi innovazioni in campo artistico, non stupisce, rileggendo alcune dichiarazioni recenti al vetriolo di Gabriele Muccino (regista di “7 anime” e “Gli anni più belli”), come il film dei fratelli D’Innocenzo venga spesso incompreso, in quanto ritenuto troppo distante dai canoni che rendono oggi il cinema autoriale italiano degno del suo nome. Il motivo risiede nel tipo di “manifesto” che la pellicola stessa incarna: un linguaggio visivo inusuale, una struttura narrativa a tratti oscura e specialmente uno specchio dell’influenza che il mondo adulto, non sempre coscienziosamente, riversa sulle future generazioni.

Dopo l’enorme visibilità ottenuta all’edizione dei David di Donatello di ieri sera, oltre che nei circuiti europei dei festival da Berlino ai nastri d’argento, la seconda opera dei due giovani registi ha sicuramente conquistato, se prima l’attenzione, adesso l’interesse degli altri candidati nella categoria della regia e della sceneggiatura (tra cui non figura Muccino), ma soprattutto da parte del pubblico che ora come non mai, in questo periodo storico, si trova costretto a rifugiarsi, tra le altre attività, anche nell’audiovisivo per affrontare tutte quelle conseguenze che la pandemia ha portato con sé.

In fin dei conti è proprio questo sentimento che costituisce l’anima più profonda di Favolacce, l’insoddisfazione e la rabbia inesplosa di una cittadina di provincia, in cui i suoi figli filtrano, con un’attitudine ancora troppo acerba, un tipo di realtà tanto straniante quanto minacciosa, che non comprendono ma sono pronti a distruggere, pur di sentirsi finalmente parte di essa.

La narrazione si svolge per la maggior parte in un agglomerato di abitazioni quasi simmetriche e dall’aspetto ordinato (privo di determinate coordinate del luogo che lo pongono così in una dimensione quasi universale, nonostante il dialetto romano sia preminente nel corso dei dialoghi) al cui interno però, regna l’invidia per lo status sociale raggiunto da chi vive accanto a sé e l’ambiguità morale, mascherata da una tipica ipocrisia medio-borghese e perpetrata da personaggi dai toni grotteschi e disillusi.

È qui che gli eventi prendono piede, è qui che i bambini, inconsapevolmente influenzati dalle figure genitoriali e di riferimento, come quella del professore scolastico, agiscono lontano dai loro occhi, mettendo in pratica gli stessi sentimenti che gli adulti sprigionano tra le mura di casa e innescando un dibattito di carattere generazionale così come dichiara Fabio D’Innocenzo in un intervista per “Cinematographe”:

è necessario un distanziamento dalle figure genitoriali, è un allontanamento fisiologico e che, forse, oggi farebbe bene proprio per creare una rottura tra generazioni e per ripulire così la società da vizi ormai insediati e atavici
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Tali inquietudini immortali sono rese carne e ossa da attori, intenzionalmente, non troppo conosciuti, a partire dai giovanissimi e ad esclusione di Elio Germano, che interpreta un Bruno, combattuto genitore esigente ma anche uomo fallibile e, in quanto disoccupato, privato della sua virilità e quindi in una posizione moralmente inferiore verso i comprimari maschili, il cui unico sfoggio di ricchezza è la pagella eccelsa fatta esibire dai figli, macchiata per giunta da quel 9 in comportamento, che è espressione di un’incertezza nel proprio stare al mondo.

Ogni episodio che coinvolge i personaggi è un tassello di formazione che dipinge scenari in cui ognuno di noi si è trovato almeno una volta nella sua vita, dalle prime scoperte sessuali al distacco dalla sfera infantile nel momento in cui si viene in contatto con le dinamiche che regolano il mondo adulto, impresse in un fiume di fotogrammi indimenticabili dal direttore della fotografia Paolo Carnera, curatore anche delle immagini di “The White Tiger”, in concorso all’ultima cerimonia degli Oscar per la miglior sceneggiatura non originale.

E’ chiaro ormai, dopo il loro debutto con “La terra dell’abbastanza” e il successo di “Favolacce”, ladirezione autoriale e immersiva che Fabio e Damiano D’Innocenzo intendono perseguire, volta a sviscerare ciò che rende l’essere umano nel suo agire tanto misterioso quanto contraddittorio, soprattutto in previsione del loro film in uscita l’anno prossimo “America Latina”, le cui prime immagini promozionali sembrano promettere atmosfere più cupe, rispettando così il filo conduttore discendente alla quale la loro filmografia ci ha abituato, amalgamato in una società (citando il capolavoro di Mathieu Kassovitz)

che precipita e che mentre sta precipitando si ripete per farsi coraggio fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene, ma il problema non è la caduta ma l’atterraggio..