Exit through the gift shop: appunti sull’unica opera cinematografica firmata da Banksy
Presentato per la prima volta al Sundance Film Festival del 2010 e ironicamente distribuito come “il primo disastro del mondo dell’arte di strada”, Exit through the gift shop è il primo e unico documentario diretto da Banksy fino ad ‘ora.
La riuscita del film si deve inoltre alla collaborazione di un altro street- artist, Shepard Fairey, in arte Obey, oggi principalmente associato dal grande pubblico alla sua rappresentazione stilizzata del viso di André the Giant, in cui è presente l’omonimo slogan “OBEY”.
Il film ottenne una nomination per miglior documentario agli Oscar 2011 e riuscì anche ad aggiudicarsi un Indipendent Spirit Award nella stessa categoria.
Come dichiarato da Banksy fin dai primi minuti del documentario, il film doveva inizialmente basarsi sui processi artistici e sulle peripezie che l’artista visse nel primo periodo della sua carriera, ma in fase di montaggio divenne subito chiaro come in realtà colui che aveva svolto le riprese, Thierry Guetta, possedesse le potenzialità di creare una vera e propria istantanea della street art nel periodo in cui era ancora un fenomeno in ascesa e quindi poco conosciuto, avendo intervistato e seguito diversi artisti mentre lasciavano la loro impronta sui muri e nei luoghi più in vista nelle principali città sia d’America che d’Europa.
Il film, infatti, oltre agli interventi di Banksy, è costellato da una moltitudine di testimonianze che vantano artisti del calibro di Invader e André, fino allo stesso Obey. La narrazione si dirama così dalle miriadi di cassette registrate da Guetta, cittadino francese trasferitosi stabilmente a Los Angeles, che, munito in modo quasi ossessivo della sua cinepresa, imprime su pellicola le lunghe notti e le intense giornate passate con le personalità che da lì a poco rivoluzioneranno il mondo dell’arte di strada, così come i momenti intimi che vive con la sua famiglia tra le mura casalinghe.
Dai primi mosaici parigini realizzati da Invader (cugino di Guetta, sarà lui che lo farà avvicinare al mondo della street-art), ispirati al mondo dei videogiochi arcade dei primi anni 80’, fino alle gigantografie bicromatiche (non autorizzate) ideate da Fairey, raffiguranti Barack Obama, l’intento del documentarista inesperto, nonostante conoscesse ben poco riguardo al linguaggio cinematografico, sembra quello di delineare un processo quasi naturale e inevitabile che ha portato allo sviluppo di questo mezzo di espressione artistico ramificato nell’arte contemporanea. Mostrando le vite spericolate e spesso al limite della legalità degli artisti sopra citati, di fatto veicola il messaggio di un tipo di arte tanto sovversiva quanto pura e svincolata da intenti commerciali.
Ogni passata di vernice proibita su di un muro, ogni manifesto incollato con fatica nel cuore della notte, ogni banconota provocatoriamente stampata con la faccia di Lady Diana (una trovata che Banksy ebbe durante la sua permanenza a Londra), è la voce di una sottocultura urbana che prende forma ogni qual volta la gente entra in contatto con essa, rimanendone scossa, sorpresa, colpita o magari anche offesa.
Ma nel panorama artistico della street-art, colui che ha reso questo tipo di arte un fenomeno globalmente riconoscibile e riconducibile ad un determinato immaginario visivo è sicuramente Banksy, che, nel momento in cui entra in contatto con Thierry Guetta (ormai smanioso di incontrarlo e renderlo finalmente uno dei principali protagonisti della sua opera su celluloide), rivoluziona la sua vita e la visione che egli possiede sull’arte di strada. I due diventano presto inseparabili e col passare del tempo la macchina da presa si trova nelle condizioni di poter filmare i processi di ideazione e attuazione delle opere e delle performance più celebri dell’artista dall’identità misteriosa, come l’episodio londinese della cabina telefonica deformata o la pericolosa installazione di un manichino, travestito da detenuto, posto nelle vicinanze di un’attrazione a Disneyland Paris, come forma di protesta verso le carceri di Guantanamo.
L’apice del loro rapporto però verrà raggiunto quando dopo aver visionato il montaggio finale al quanto disastroso delle cassette di Thierry, chiamato “Life remote control”, Banksy suggerisce all’amico di dedicarsi ai propri progetti personali e di affidargli i nastri necessari per un secondo tentativo di montaggio. È da quel preciso istante che, come recita la tagline del film, avviene il “disastro”, in una dimensione più etica che fisica. Guetta, infatti, incoraggiato da un artista che stima immensamente inizia a dare vita ad un alter-ego artistico che prenderà il nome di “Mr. Brainwash”. Questo pseudonimo nasce dall’idea, partorita dallo stesso Thierry, che tutto ciò che riguarda la street-art possa essere considerata una forma di lavaggio del cervello, propinata dall’artista verso colui che è influenzato dalla sua opera.
Per quanto riguarda i contenuti della sua forma d’arte, invece, si potrebbe affermare che essa sia il prodotto della sua esperienza sul campo, una summa dei diversi artisti con cui è entrato in contatto durante la realizzazione del suo documentario. Il fiorire della carriera artistica di Mr. Brainwash diventa presto dirompente, specialmente con il successo della sua prima mostra “Life is beautiful”, tenutasi a Los Angeles nel 2008, nel cui, nonostante i diversi imprevisti di natura economica e organizzativa e perfino la rottura di una gamba di Guetta, emerge lo stile di un uomo che piuttosto repentinamente è riuscito a passare dall’essere un documentarista girovago al diventare un artista ricercato della scena losangelina.
Entrando nei dettagli del suo metodo di lavoro, emerge chiaramente come la principale funzione svolta dall’artista è quella ideativa e concettuale, poiché appunto nella pratica le opere sono realizzate tramite la tecnica dello “scanning e photoshopping”, cioè copiatura e modifica di immagini e ritratti preesistenti secondo il volere dell’artista e l’idea di fondo da lui commissionata ai suoi collaboratori. Questo metodo di lavoro contrasta nettamente con la concezione artistica perseguita da Banksy, il quale, come spesso mostrato dal girato, preferisce creare da sé ogni elemento facente parte delle sue opere ed essere presente durante ogni passaggio della sua realizzazione.
Exit through the gift shop, quindi, se volessimo descriverlo a grandi linee sarebbe un film idealmente complesso su di un uomo che nel tentativo di creare una ricostruzione degli eventi uniforme e curiosamente amatoriale sui primi passi della street-art in America ed Europa, si sia in realtà trovato nella posizione di poter “rubare” da ogni artista entrato con lui in contatto per elaborare uno stile unico e allo stesso tempo anacronistico da impiegare nelle sue opere. Aspetto che Banksy non ha mancato di cogliere attraverso la regia del film, che rende la storia narrata assimilabile a qualsiasi altra opera a lui attribuita, non diversamente dal suo metodo di impiego dello stencil, di conseguenza, le immagini che si susseguono sullo schermo suggeriscono le stesse sensazioni e finalità che regalerebbe un monumentodella pop-art, con tutte le conseguenze morali che ne deriverebbero.