Germano Celant, un omaggio
Germano Celant, nato a Genova nel 1940, è tra i protagonisti della storia dell’arte contemporanea che, a causa del Covid-19, è scomparso esattamente un anno fa, il 29 aprile 2020.
Quasi sempre vestito di nero, con uno spirito indipendente e una curiosità intellettuale, era un teorico, critico e curatore d’arte, nonostante lui non amasse molto questa definizione. Il titolo di “indipendente” è più adatto e, sicuramente, aveva un modo di agire tutto suo: parlava attraverso le immagini. Era sempre in continuo movimento: interviene alla Biennale di Venezia, al Museo Guggenheim di New York, al Centre Pompidou di Parigi. La sua conoscenza non si arrestava mai, la curiosità lo spingeva sempre in direzioni illimitate. Ad aiutarlo nelle scoperte c’era la sua abilità nel rendersi complice degli artisti e al processo delle loro opere.
La sua ricerca continua, mai esausta, l’ha portato ad essere un vero e proprio pilastro sia nel contesto nazionale sia in quello internazionale.
Agisce nel panorama artistico con un atteggiamento di innovazione, sempre guidato dalla sua capacità di pensiero critico che lo rende abile a muoversi nel suo tempo, al punto da lasciare un segno imprescindibile.
Negli anni 60 del ‘900, l’Italia si rende per l’arte un contesto fortemente dinamico e continuamente alla ricerca di nuovi stimoli. Sono, infatti, gli anni in cui avviene lo spostamento dello sguardo dal manufatto al momento creativo: non più il prodotto, ma il processo; quelli in cui si fa sentire di più la relazione tra arte e vita, tra arte e società. Questi concetti, infatti, sono quelli che catturano maggiormente l’interesse di Celant.
È in questo contesto che lui si rende interprete di una vera e propria ideologia: alla fine di questi anni, precisamente nel 1967, promuove la ricerca di un gruppo di artisti che, nonostante fossero fortemente diversi tra di loro, hanno in comune il sentimento polemico verso il sistema, radicato in una visione dell’opera come oggetto di consumo.
Privi di un programma definito, ad accomunarli è proprio l’atteggiamento di libertà rispetto al conformismo.
Giovanni Anselmo, “Torsione”, 1968, cemento, pelle e legno.
Nasce così un vero e proprio movimento artistico al quale Celant assegna il nome di “Arte Povera” e che si presenta per la prima volta alla Galleria La Bertesca di Genova nel 1967 con la mostra “Arte Povera Im-Spazio”. Il termine “povera” è associato ai materiali usati, i quali erano di vario tipo, come vegetale, organico, minerale, ecc. Tra gli artisti emergono i nomi di Anselmo, Boetti, Fabro, Kounellis, Merz, Pascali, Pistoletto, Paolini, Zorio.
Jannis Kounellis, “Pappagallo”, 1967, pappagallo vivo e acciaio
Il 23 novembre 1967 Celant pubblica su “Flash Art” un vero e proprio manifesto dal titolo “Arte Povera. Appunti per una guerriglia” in cui espone l’ideologia del movimento.
Il termine “guerriglia” viene da lui usato per descrivere la loro attitudine, ovvero l’intenzione di contrastare gli archetipi ed un sistema che guardava l’artista come mero produttore di oggetti.
Alla base di questo movimento c’è il concetto del libero agire e un’attenzione totale al “processo”.
Da questa analisi, Celant fa emergere una riflessione decisiva in merito al concetto stesso di arte:
È quindi un movimento, o meglio, un’attitudine quella di cui si rende portavoce Celant, il quale manifesta così il suo pensiero di arte come possibilità progettuale che nasce soprattutto dall’analisi attenta alle pratiche artistiche.
Ricordiamo Celant con le parole di Michelangelo Pistoletto:
Germano Celant e Michelangelo Pistoletto