Racconti d’arte. 5 fatti misteriosi ed inquietanti della storia dell’arte

La storia dell’arte è una storia fatta di racconti contaminati da bellezza e meraviglia, di artisti geniali e le loro muse, di opere grandiose e capolavori magnifici, ma, a volte sotto la patina dorata che ricopre questo mondo, si nascondono altre verità, verità scomode e talvolta inquietanti.

Oggi vi parliamo del lato oscuro della storia dell’arte, quello meno noto e enigmatico, fitto di intrighi e misteri ancora da chiarire.

Walter Sickert, sulle orme di Jack lo squartatore

Walter Sickert, considerato da molti il più importante pittore inglese dalla morte di Turner,  nasce a Monaco di Baviera nel 1860 e dopo una breve esperienza come attore decide di fare il pittore sotto l’ ala del maestro James Abbot Whistler. Grazie a Whistler entra nell’ambiente parigino, dove fa la conoscenza dell’impressionista Edgar Degas i cui quadri influenzano molto il suo stile. Sickert però alle scene luminose e in un certo senso rassicuranti dell’impressionismo predilige colori cupi e atmosfere tenebrose. Nel 1885 sposa Ellen Cobden, un matrimonio conveniente, che gli garantisce un alto tenore di vita, così comincia a frequentare diversi locali molti dei quali si trovano proprio a White Chapel, il quartiere dei delitti di Jack lo squartatore.

L’ identità di Jack the Ripper non è stata mai scoperta, ma sono tante le teorie che negli anni sono state formulate a riguardo, alcune plausibili, altre più fantasiose, come quelle che identificano il colpevole in Oscar Wilde o in Lewis Carrol; tuttavia non si ha ancora nessuna certezza e l’identità dell’assassino di White Chapel rimane tutt’oggi un mistero.

Ma cosa ha che fare Walter Sickert con Jack lo squartatore? Secondo la famosa giallista Patricia Cornwell le analogie tra il pittore e il serial killer sarebbero molte. Tutto comincia dall’analisi di una serie di quadri chiamata “Camden town murders”, titolo già di per sè inquietante, che richiama un altro famoso caso di cronaca, l’omicidio della prostituta Emily Dimmock avvenuto appunto nel quartiere di Camden Town a Londra. La serie ha come soggetto delle donne distese su un letto di ferro, nude, apparentemente senza vita. Apparentemente perché, se non fosse per il titolo esplicativo, potrebbero tranquillamente sembrare delle figure dormienti. Nella stanza le donne sono accompagnate da un uomo vestito, probabilmente il killer. La scena è rappresentata in modo che ci sembri di osservarla di sottecchi, da una porta lasciata socchiusa o dal buco di una serratura, un effetto che aumenta il senso di orrore di fronte a quello che stiamo guardando.

Secondo la Cornewell le posizioni in cui sono dipinte le donne richiamerebbero in maniera inequivocabile i corpi delle vittime di Jack lo squartatore in particolare quello di Mary jane Kelly e Catherine Eddowes. In effetti se si confrontano le immagini dei delitti con i quadri la somiglianza è innegabile, ma ovviamente questo non basta a confermare una teoria tanto ambiziosa. Ci sono però diversi indizi a carico del pittore, molti dei quali raccolti proprio da Patricia Cornwell, che ha acquistato ben 32 opere del pittore e diverse lettere sue e di Jack lo squartatore per confrontarle. Il solo risultato ottenuto fu un esigua percentuale di DNA compatibile, pari all’un per cento di possibilità che si tratti della stessa persona. Pare però che la carta usata e l’inchiostro color ocra, molto in voga tra i pittori, fossero gli stessi. Ovviamente la teoria della Cornwell non è stata accettata dalla comunità scientifica e giudicata troppo lacunosa per essere considerata seriamente, però il dubbio su come sia possibile una tale somiglianza tra le tele e i delitti rimane. Sarà allora Walter Sickert il vero jack lo squartatore? Non lo sapremo mai, ma come affermò lui stesso “In fondo un omicidio è un soggetto buono come qualsiasi altro”   

Pollock e la CIA

Pollock è certamente uno degli artisti americani più conosciuti di sempre, la sua ascesa comincia nel 1943 con la sua prima personale nella galleria Art of This Century di Peggy Guggenheim e benché fosse il più giovane, era stato salutato come il più maturo e originale degli artisti attivi a New York. L’8 agosto 1949 viene pubblicato un articolo sulla famosa rivista LIFE che si apre con una domanda: “È lui il più grande pittore vivente degli Stati Uniti d’America?”. Da questo punto comincia la nostra storia. Tutti sapevano che l’articolo era stato sovvenzionato dal MoMa quello di cui nessuno era a conoscenza è che nel consiglio d’amministrazione del MoMa c’erano diversi membri della CIA ovvero i servizi segreti americani. Ma che interesse potevano avere i servizi segreti in fatto d’arte? La risposta è molto semplice: la loro missione era di rilanciare l’immagine culturale del paese.

I servizi segreti possono influenzare la vita culturale di una nazione attraverso sovvenzioni nascoste ad iniziative culturali: edizioni di libri, riviste e anche mostre. Tra i loro compiti vi è la guerra psicologica e la diplomazia culturale: una grande nazione non può essere forte solo economicamente, ma deve predominare anche culturalmente, motivo per cui l’intelligence dei vari paesi finanzia determinate iniziative per promuovere l’immagine e lo stile di vita del proprio paese. La CIA negli anni 50 doveva da una parte contrapporsi all’unione sovietica e dall’altra fare in modo che gli intellettuali europei non venissero affascinati dal Marxismo.

Nell’ ottobre del 1995 esce un articolo in cui un ex funzionario della CIA Donald Jameson conferma che i servizi segreti hanno usato l’arte americana per combattere la guerra fredda. “L’espressionismo astratto…” dice jameson, “…era l’arte ideale per dimostrare quanto rigido, stilizzato e stereotipato fosse il realismo socialista. Si può dire che l’espressionismo astratto l’abbiamo inventato proprio noi della CIA influenzando musei, mostre e giornali e cogliendo le novità a New York e a Soho”. Gli artisti ovviamente erano ignari di tutto il meccanismo interno che c’era dietro al loro successo, si limitavano a godersi i benefici ignari dell’operazione a cui stavano contribuendo ovvero fare dell’America il nuovo polo artistico mondiale.

Ma perché proprio Pollock? Perché Pollock racchiudeva in sé le caratteristiche fondamentali di questo movimento, che veniva definito degli irascibili, nonché quelle dell’America del tempo: era di origini modeste, ma si era fatto da solo, un self made man contro le norme che beveva e fumava, in pratica il ritratto dell’americano medio secondo quella che era la visione maschilista del mito dell’american way of life. Sicuramente la CIA ha sfruttato il successo di Pollock per promuovere un’ideale, ma è innegabile che abbia anche saputo riconoscere un talento in erba e di questo bisogna rendergliene merito.

Caravaggio e la Mafia

Palermo, 17 ottobre 1969. Siamo in via dell’Immacolata dove si trova l’oratorio di San Lorenzo, due uomini forzano la porta d’ingresso ed entrano nella chiesa. Uno dei due tira fuori una lametta e si arrampica sull’altare cominciando a tagliare i bordi di una tela, una volta fatto i due la arrotolano dentro un tappeto e scappano sotto la pioggia a bordo di un motorino. La tela è la natività di Caravaggio e da quel momento è in mano alla Mafia.

Alla fine degli anni sessanta i furti di opere d’arte, soprattutto di reperti archeologici sono diventati un’emergenza nazionale. In Sicilia e in tutto il sud il mercato degli scavi illegali è sempre più ramificato e portato avanti con la collaborazione della Mafia. Le opere vengono rubate e falsificate, tra il 1967 e il 1968 dai magazzini demaniali di Selimonte spariscono ben 43 oggetti e nello stesso periodo a Siracusa, Ragusa e Messina vengono sottratti diversi dipinti.

Il furto dell’opera di Caravaggio è solo l’apice di una situazione incontrollabile che lo stato non riesce a contrastare. I giornali denunciano lo stato d’abbandono in cui si trovava il quadro, fatto già noto alle autorità in quanto il parroco di San Lorenzo, Don Benedetto Rocco, aveva più volte chiesto di prendersi cura delle opere che si trovavano in uno stato di totale incuria. Basti pensare che a proteggere il dipinto c’era solo una tenda, inoltre la serratura della porta era malfunzionante.

Per quanto riguarda il destino del quadro, negli anni sono state formulate diverse teorie basate per lo più sulle confessioni di pentiti di Mafia, alcuni dei quali hanno parlato del fatto anche con Giovanni Falcone. Secondo alcuni il mandante del furto sembrerebbe essere il boss Gaetano Badalamenti, che poi lo espose durante le riunioni della Cupola a testimonianza del potere dell’organizzazione sullo stato. Invece, secondo Vincenzo La Piana, nipote del boss Gerlando Alberti il dipinto fu seppellito in una cassa di ferro insieme a cinque chili di cocaina e alcuni rotoli di banconote. Nel luogo indicato agli investigatori però la cassa col dipinto non venne mai trovata.

Poi arriva Francesco Marino Mannoia, il quale confessa al giudice Giovanni Falcone di essere stato lui il mandante, ma che il dipinto fu danneggiato durante il trasporto e ora non esiste più, la decisione di arrotolarlo in un tappeto e portarlo via sotto la pioggia si sarebbe rivelata fatale per le condizioni dell’opera. Successivamente abbiamo le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza: secondo lui la tela venne conservata in una stalla in attesa di trovare un compratore che però non arrivò mai, l’unico problema è che in quella stalla venivano tenuti anche dei maiali che inevitabilmente si cibarono del quadro. Arriviamo così all’ultima confessione in ordine di tempo, quella del pentito Gaetano Grado, che raccontò che Cosa Nostra recuperò il quadro rubato da alcuni piccoli malavitosi per poi rivenderlo all’estero, in Svizzera dove si troverebbe tuttora.

Il mistero rimane ancora irrisolto, magari il Caravaggio rubato esiste ancora, o forse è andato per sempre distrutto, ma continua ancora oggi a ricordarci l’importanza di prenderci cura del nostro patrimonio artistico e a proteggerlo da chi vorrebbe appropriarsene illegalmente.  

Lo stupro di Artemisia Gentileschi

Siamo nella Roma del 1600 e Artemisia è una giovane donna che coltiva l’ambizione di diventare una pittrice, o meglio pittora, come si dice all’epoca. Figlia dell’artista consolidato Orazio Gentileschi, perde la madre a soli 12 anni. Cresce così con i tre fratelli e con il padre che la relega in casa, con la sola compagnia di una sua vicina di casa: Tuzia, che ha anche il compito di sorvegliarla. Una vita priva di stimoli quella di Artemisia, che così inizia ad avvicinarsi alla pittura. Studia i corpi maschili osservando i modelli che posano per il padre e per la figura femminile osserva se stessa, ritraendosi spesso nei suoi quadri che nascondono un oscuro significato autobiografico.

Prendiamo ad esempio il quadro “Susanna e i Vecchioni” del 1610, un quadro così perfettamente eseguito che la critica stentò a credere si trattasse della mano di una giovane artista appena diciottenne. Eppure, nell’apparente perfezione c’è qualcosa che stona. Se si osservano infatti i due signori dipinti alle spalle della ragazza si può notare che uno di essi non è ritratto come un vecchio, bensì come un giovane uomo dai capelli scuri.

Nello stesso periodo a Roma arriva un pittore toscano, un maestro del paesaggio e del quadraturismo, termine che si riferisce all’arte di riprodurre accuratamente sfondati architettonici e finte prospettive. Il pittore diviene subito uno stretto collaboratore di Orazio e comincia a frequentare casa Gentileschi sempre più assiduamente. Il suo nome è Agostino Tassi. Agostino non fa mistero della sua attrazione per Artemisia e comincia subito a corteggiarla, è quindi presumibile che in “Susanna e i vecchioni” Artemisia abbia ritratto la sua angoscia nel sentirsi oggetto di attenzioni indesiderate.

Passa un po' di tempo, Agostino è impaziente di ottenere ciò che desidera e il 6 maggio 1611 sfrutta l’occasione di una porta lasciata aperta per introdursi in casa in assenza di Orazio, cogliendo Artemisia intenta a dipingere in compagnia della sua fidata Tuzia. Agostino tenta di sedurla, ma lei rifiuta tenacemente, allora lui ordina a Tuzia di lasciarli soli e lei esegue, abbandonando Artemisia nelle braccia del suo aguzzino. Il dramma si è consumato e la giovane ormai disonorata non può che strappare al suo aggressore la promessa di un matrimonio riparatore per salvarsi così dalla pubblica diffamazione.

Passa un anno e le nozze ancora non sono state programmate, a quel punto ad Artemisia non resta che denunciare il suo stupratore. Inizia così un processo straziante, durante il quale Artemisia viene torturata per mettere alla prova la sua purezza. Le vengono legate le braccia dietro la schiena e le dita intrecciate con una cordicella che piano piano si stringe sempre di più bloccando la circolazione del sangue. Durante il processo Agostino nega tutto, corrompendo anche alcuni testimoni per screditare Artemisia e farla sembrare una donna avvezza a un certo tipo di frequentazioni. Orazio fortunatamente riesce a dimostrare la corruzione dei testimoni e così alla fine del lungo processo, Agostino viene condannato all’esilio che però non sconterà mai.

Il nome di Artemisia viene così riabilitato, ma le tracce dell’abuso permarranno nella sua arte, tuttavia qualcosa è cambiato, non si ritrae più fragile e spaventata come in Susanna e i vecchioni, bensì combattiva e vincente come l’eroina biblica Giuditta che decapita Oloferne. Se volete conoscere più approfonditamente la storia di Artemisia vi consigliamo il libro “la passione di Artemisia” potete leggere la recensione qui.  

L’assassinio di Winckelmann

È l’8 giugno del 1768, siamo a Trieste ed è quasi mezzogiorno. Il magistrato Stanislao de Kupferschein viene chiamato di fretta all’Osteria Grande, l’albergo più prestigioso della città, sale al primo piano nella stanza numero dieci dove ad accoglierlo c’è una scena terrificante. Sul letto c’è un uomo ferito, coperto di sangue e intorno a lui preoccupati, il proprietario dell’albergo un garzone e un chirurgo. L’ uomo è stato colpito da numerose coltellate e due sono mortali, non c’è speranza è solo questione di tempo. All’osteria l’uomo è conosciuto come signor Giovanni, ma quando il magistrato fruga nella sua valigia scopre il suo passaporto; non si tratta di un ospite qualunque ma di Johann Joachim Winckelmann, prefetto delle antichità vaticane e padre del neoclassicismo.

Il garzone dell’albergo racconta che si trovava in sala da pranzo quando ha sentito dei rumori strani provenire dal piano di sopra. Sale alla stanza numero dieci e si trova di fronte Winckelmann steso sul pavimento con una corda stretta intorno al collo. Winckelmann dice che è stato aggredito dal suo vicino di stanza che voleva rubargli delle medaglie di grande valore donategli dall’imperatrice Maria Teresa d’Austria. Il suo vicino si chiama Francesco Arcangeli e fa il cuoco, è arrivato a Trieste dieci giorni prima in cerca di lavoro. Dunque la prima ipotesi è che si tratti di una rapina finita male, ma è davvero questo il movente del terribile omicidio?

Fin da subito circolano delle voci tra il personale dell’albergo, voci che parlano di un alquanto “insolita” amicizia tra Winckelmann e l’Arcangeli. A quei tempi non era usuale vedere un uomo colto e raffinato accompagnarsi con un rozzo e ignorante quale era l’Arcangeli, inoltre Winckelmann era segretamente omosessuale, lo si deduce da alcune lettere inviate al suo discepolo e ad un nobiluomo tedesco. Che si tratti allora di un delitto passionale? Ma innanzi tutto come mai Winckelmann si trovava a Trieste in quei giorni fatali?

Dal 1763 Winckelmann ricopre l’incarico di sovrintendente alle antichità di Roma, ruolo che fu prima di Raffaello Sanzio e in futuro sarà di Canova. Si trova dunque all’apice della sua carriera quando nel 1767 comincia a pianificare un lungo viaggio in Austria e in Germania, che lo porterà alla corte di Federico II di Prussia il quale si era offerto di finanziargli degli scavi in Grecia. Arrivato a Vienna Winckelmann viene ricevuto dall’imperatrice Maria Teresa, che gli consegna le famose medaglie e lo invita a rimanere nella capitale. Winckelmann è però ansioso di ritornare a Roma rinunciando perfino ad incontrare Federico II. Arriva così a Trieste il primo di giugno, con una carrozza a noleggio, in quella che sarà l’ultima tappa del suo viaggio.

Ma torniamo per un momento al nostro assassino. Dopo l’omicidio Francesco Arcangeli viene catturato al confine con l’odierna Slovenia e riportato a Trieste dove viene interrogato. Da subito l’uomo sostiene la tesi della legittima difesa, ci sono però due testimoni che lo sconfessano. Il primo sostiene di avergli venduto la corda trovata addosso a Winckelmann, il secondo dice di avergli venduto l’arma del delitto, se la ricorda bene perché, ironia della sorte, sul fodero c’era ricamata una doppia W; quel fodero venne ritrovato nella stanza numero nove, proprio la stanza dell’accusato. A quel punto Arcangeli si confonde e si contraddice e solo al penultimo interrogatorio ammette la premeditazione, ma non il movente dell’omicidio. In fondo dice, se avesse voluto i beni di Winckelmann sarebbe potuto entrare in camera sua quando lui non c’era. L’interrogatorio continua e alla fine lui confessa l’omicidio a scopo di rapina e questa è la verità che ci consegna il processo. Del resto a quel tempo per un’accusa di sodomia si finiva bruciati vivi, non sorprenderebbe allora che l’Arcangeli abbia negato la possibilità di un delitto passionale.

Eppure anche in questo caso c’è qualcosa che stona, si dice che i due fossero in ottimi rapporti quindi perché ucciderlo senza un apparente motivo? A questo punto si fa largo una terza teoria. Arcangeli durante l’interrogatorio afferma che Winckelmann gli avrebbe confessato di essere in missione presso Maria Teresa d’Austria e di aver scoperto un complotto e un raggiro ai danni della sovrana. Dunque il vero motivo dell’abbandono del suo viaggio sarebbe stata un’importante missione diplomatica. Potrebbe essere allora questo il vero movente dell’omicidio, qualcuno aveva interesse nel far sparire Winckelmann prima che rivelasse verità scomode e ha assoldato l’Arcangeli per occuparsi del lavoro in cambio di un’ingente somma di denaro. Come si evince da quanto scritto finora il caso ha molteplici soluzioni, l’unica certezza è che ad essere ucciso fu una delle più grandi menti della storia dell’arte, capace con i suoi scritti, di fondare una corrente artistica.

Il nostro elenco finisce qui. Se pensavate che la storia dell’arte fosse solo una storia di onore e gloria, allora vi sbagliavate di grosso. Come ci insegnano i grandi maestri: le cose si compongono di luce e di ombra, non può esservi l’una senza l’altra.

-Rubina Postiglione-